Solennità del Corpo e del Sangue del Signore

Celebriamo con fede la solennità del Corpo e del Sangue del Signore per ricordare a noi stessi la centralità del sacramento eucaristico per la vita cristiana. E fra poco faremo anche un tratto di strada portando, fra le vie e le piazze della nostra città, la presenza eucaristica del Signore. È sempre importante chiedersi perché poniamo alcuni gesti: tutte le volte che prendiamo la scorciatoia e diciamo che li poniamo perché si è sempre fatto così, in verità stiamo dichiarando che non ci ricordiamo più il perché. E l’insistenza con cui la chiesa nostra madre ci invita a celebrare l’eucaristia e ci chiede, una volta l’anno, di compiere questa processione, è un motivo in più per domandarci il senso e il motivo di queste celebrazioni, di questi gesti.

La prima motivazione per cui siamo invitati a celebrare l’eucaristia è per vincere la tentazione di rendere la nostra fede un puro atto intellettualistico. Qualche volta possiamo immaginare che la fede si limiti a credere qualcosa, a declinare un compendio di catechismo, a valutare la vita in base alla moralità delle scelte che si fanno… certamente è anche questo, ma nel momento più importante della sua vita Gesù non ci offre dottrina, ma due segni da compiere per fare memoria di lui. E questi segni sono radicati nel profondo del nostro essere umano, dato che ci appartengono profondamente: sono il mangiare e il bere. La nostra fede non si sostanzia di formule, di sofismi capaci di rassicurarci, di placare i nostri bisogni, ma ha bisogno di concretezza; assomigliamo molto a ogni bambino che intuisce -nella sua capacità limitata di intelletto- che chi lo nutre gli vuole bene, chi lo nutre non può fargli del male. Poi imparerà anche a conoscere il volto di chi lo nutre, di chi lo tiene in vita con questo semplice gesto di accudimento, ma per quel momento sente il bene di chi si fa presenza e relazione e cibo in quel momento e con quei gesti. Il centro della nostra fede, l’eucaristia, ci ricorda che non possiamo vivere la nostra fede solamente pensando di sapere qualcosa, di conoscere i dettami della fede o della morale, magari per autocompiacercene, ma abbiamo bisogno di vivere l’incarnazione che trova la sua vetta sublime nell’eucaristia. La nostra fede è questione di carne e non di mente! Scriveva un cristiano del 2°/3° secolo, di nome Tertulliano: “Caro salutis cardo” (la carne è il cardine, il centro della salvezza). L’Eucaristia ci insegna a vivere nella storia, a far diventare nostre “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” (GS 1) e non a desiderarla per calmare i nostri bisogni religiosi, l’ansia di ricevere un premio al nostro sentirci buoni e dunque migliori degli altri, per collezionare buoni premio che ci aprono le porte del paradiso! Il linguaggio utilizzato da Gesù nell’ultima cena e che viene ripetuto ad ogni eucaristia ci porta non alla sublimità delle altezze celesti, ma alla concretezza della vita di fede, fatta di carne e sangue, di corpo e di storia, di sofferenza e di lotta per l’avvento del Regno.

La seconda motivazione per cui celebriamo l’eucaristia è la considerazione che la fede o si trasmette con la propria vita o non ha significato. Ce lo diceva il testo della seconda lettura: Gesù “entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna”. Non si ama da lontano, non si vive di immagini e di illusioni, si vive sperimentando e godendo della vita, mettendosi in gioco e non facendo gli spettatori. Non si cambia la storia dall’alto della propria posizione di vita, delle proprie sicurezze, delle proprie ricchezze, ma si cambia la storia con quello che si è e quello che si fa. Ancora una volta l’eucaristia ci racconta il modello di vita che Gesù ha vissuto, prima che raccontarci i contenuti di quanto Gesù ha fatto. A Gesù non interessa che la Zaccheo conosca la Legge e la rispetti, va a casa sua e mangia con lui; non interessa quello che può pensare la gente dell’adultera trovata in flagrante adulterio, si mette dalla sua parte e accetta l’ipotesi -più che realistica- di essere lapidato al posto suo; non ci dona la salvezza da vittorioso, ma da uomo che vive la sua solidarietà con noi fino alla morte e alla morte di croce. È una logica che costa cara, ma è l’unica capace di salvare. Scriveva un teologo: “La grazia a buon mercato è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato. Grazia a caro prezzo è il vangelo, che si deve sempre di nuovo cercare, il dono per cui si deve sempre di nuovo pregare, la porta a cui si deve sempre di nuovo bussare. È a caro prezzo, perché chiama alla sequela; è grazia, perché chiama alla sequela di Gesù Cristo; la grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata cara a Dio, perché gli è costata la vita di suo Figlio e perché non può essere a buon mercato per noi ciò che è costato caro a Dio”. (D. Bonhoeffer, Sequela)

La terza considerazione si colloca sulle parole che Gesù dice e ripete durante l’ultima cena, nell’ambito della lavanda dei piedi e nell’ambito della istituzione dell’Eucaristia. Nel primo ambito ricorda: “Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.” (Gv 13,13-14) E nel secondo ambito, nella versione dell’evangelista Luca, ci viene detto che il Signore ammonisce i discepoli con le parole: “fate questo in memoria di me” (Luca 22:19). È solo un ricordo rituale? Certamente no. È invece un invito ad assumere il suo modello di vita nella nostra vita. Scriveva don Tonino Bello: “Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell’eucaristia un momento di compiacimenti estenuanti, che hanno snervato proprio la forza d’urto dell’eucaristia e ci hanno impedito di udire il grido dei Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto. Se dall’eucaristia non si scatena una forza prorompente che cambia il mondo, capace di dare a noi credenti l’audacia dello Spirito Santo, la voglia di scoprire l’inedito che c’è ancora nella nostra realtà umana, è inutile celebrare l’eucaristia. Questo è l’inedito nostro: la piazza. Lì ci dovrebbe sbattere il Signore, con una audacia nuova, con un coraggio nuovo. Ci dovrebbe portare là dove la gente soffre oggi. La Messa ci dovrebbe scaraventare fuori. Anziché dire la messa è finita, andate in pace, dovremmo poter dire la pace è finita, andate a messa. Ché se vai a Messa finisce la tua pace.”

Mentre continuiamo questa eucaristia e durante il percorso che faremo nella nostra città con Gesù Eucaristia possiamo continuare a domandarci se e come viviamo l’eucaristia: esperienza rassicurante che ci invita a guardare il cielo o esperienza sovversiva che ci mette in moto come artigiani di pace e di giustizia della storia? Celebrazione che placa il nostro bisogno di religiosità da confinare in orari e momenti della vita o dimensione totalizzante della vita stessa, capace di stravolgere le nostre strategie intellettuali ed umane? Placebo che narcotizza i mali della storia e le ipocrisie del tempo o esperienza che stimola la nostra partecipazione, la nostra creatività sociale ed ecclesiale? Lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, ci aiuti a compiere il necessario discernimento e ci guidi a conversione.

 

+ Giovanni Checchinato

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