S. S. Crocifisso

Il testo del Vangelo di Giovanni ci fa conoscere il dialogo fra Gesù e un uomo anziano, si chiama NICODEMO; è un uomo pio, osservante, appartiene al gruppo dei Farisei. Sappiamo ancora dal resto del Vangelo che prende le difese di Gesù (7,50) e sarà insieme a coloro che depongono il corpo di Gesù nella tomba; è lui che porta 30 chili di mirra e aloe per trattare il corpo di Gesù (19,39). Probabilmente è membro del Sinedrio (organo centrale del Governo del Tempio –e non solo-). Quest’uomo pio e giusto secondo la Legge del Tempio è in crisi perché i conti con Dio non gli tornano. È un uomo con la testa sulle spalle, non si accontenta di quello che dicono gli altri, ha bisogno di dare un senso alla sua fede e a quello che accade. Ci dice ancora il testo che va da Gesù di notte. Probabilmente è andata proprio così, Nicodemo è andato dal maestro di notte, per non farsi vedere, per non far parlare le malelingue… Conoscendo chi ha scritto il Vangelo probabilmente non si tratta solo di una informazione cronologica, ma di qualcosa di più. È buio fuori, ma è buio anche nel cuore di Nicodemo, e sta cercando la luce. Nicodemo ci assomiglia tutte le volte che anche noi siamo nelle sue stesse condizioni, abbiamo il buio dentro perché non riusciamo a capire, non riusciamo a vedere una luce che possa mostrare una qualche dimensione alla situazione difficile che ci è venuta addosso. Non è sufficiente avere la vita per vivere, e lui desidera dare un senso alla sua vita. Ha bisogno di qualcosa capace di offrire senso, prospettiva, orientamento. Che senso ha la vita? Che senso ha il soffrire? Perché la morte, il dolore, la guerra, le ingiustizie… In fondo in fondo, davanti al Crocifisso non ci facciamo le stesse domande?

Gesù non ha una risposta definitiva, anzi, ci saremmo aspettati qualcosa di più dal Maestro che viene dalla Galilea, una risposta risolutiva, spiazzante, capace di mettere a tacere ogni se e ogni ma. Poi se prendiamo l’impegno di andarci a rileggere per intero il testo scopriamo che l’incontro con Nicodemo resta sospeso: ad un certo punto è solo Gesù che parla e sembra che il suo interlocutore scompaia dalla scena. Perché le parole del Maestro sono parole per tutti noi. E anche noi che andiamo a cercare spiegazioni, quel brano sembra non spiegarsi. Un brano che non si spiega, nel senso banale del termine, perché il suo obiettivo è quello di permettere al nostro cuore di spiegarsi, di aprirsi dal suo accartocciamento, cioè di ridurre e annullare le pieghe. Può esserci utile lasciarci ispirare più dalle immagini che dalle parole (tenebre/luce, padre/figlio, salvezza/perdizione, amore/giudizio, fede/incredulità…) e così possiamo scoprire che il testo è una profonda catechesi sulla vita e risponde alla domanda: Quando si vive veramente? 

Non è sufficiente nascere, ci dice il Signore, si vive veramente solo quando si è amati. E il testo ci parla dell’amore incredibile di Dio. Siamo tutti debitori al grande Cartesio che ci ha insegnato una grande massima filosofica: Cogito ergo sum, penso, dunque sono. È una verità, ma parziale perché mi coglie solamente nella dimensione dell’autocontemplazione, in una prospettiva di vita in cui ci sono solo io. La fede, e questo brano in maniera tutta particolare, ci vogliono condurre ad una considerazione simile a quella del grande filosofo dal punto di vista lessicale, ma radicalmente differente dal punto di vista esistenziale. Basta aggiungere una r a cogito che diventa cogitor, ergo sum. Sono pensato, per questo esisto. E proprio per capire fino in fondo a come siamo pensati che Gesù mostra in anticipo a Nicodemo il mistero della croce, utilizzando un testo del Primo testamento, che ci parla del serpente di bronzo. Gesù ci dice che se vogliamo capire fino a che punto siamo amati, abbiamo bisogno di vedere fino a che punto il Signore ci ha amati. D’amore si può vivere. E altrettanto bene sappiamo che di odio si muore. Si muore perché ci si uccide, come in guerra, o perché con il nostro odio siamo capaci di seppellire le persone nel cimitero del nostro cuore. E sappiamo bene che chi non si sente amato fa fatica ad amare e ad amarsi. E Gesù con la sua croce è venuto a mostrarci quanto ci ha amato. Sceglie di finire in croce, conosce l’abisso del peccato della storia umana e non guarda schifato, ma fa diventare sua questa storia, la prende su di sé e la porta con noi per dirci che siamo suoi fratelli, amati. Fratelli così preziosi per i quali non si esita neanche un istante a regalare la vita, tutta intera. QUANTO VALE UN UOMO? Tanto quanto è amato. E ogni uomo vale la vita di Dio. Ecco, davanti al crocifisso possiamo trovare questa risposta: questa è la misura dell’amore con cui mi ha amato Dio. Se lo capiamo, sentiamo la necessità di amare e rispettare ogni essere umano, chiunque esso sia. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna, dice Gesù. Tutte le religioni insegnano a «tener buono» Dio, perché altrimenti si vendica e te la fa pagare, mentre invece Gesù è venuto a toglierci dalla mente e dal cuore questa immagine «demoniaca» di Dio che è stato capace invece di amarci in maniera sublime attraverso la CROCE. Sì, davanti alla croce abbiamo bisogno di riscoprirci figli amati perché Dio non vuole giudicare nessuno, ma salvare tutti. Non fa finta che il male non ci sia, non chiama il male «bene», perché il male l’ha visto, l’ha sperimentato, l’ha preso su di sé. E il giudizio di Dio è questo: preferisco finire in croce io, piuttosto che condannare voi. 

“Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” ci vuole suggerire ancora qualcosa. Chi aveva bisogno che il Figlio di Dio fosse crocifisso, innalzato? Dio? Riusciremmo ancora a credere ad un Dio che vuole l’uccisione di suo figlio, anche se per un nobile motivo? No, certamente. Chi aveva bisogno di un Dio crocifisso? Ne avevamo bisogno noi. Per capire fino a che punto è disposto a perdere per noi. E allora davanti a questo mistero della croce siamo invitati a scorgere in essa non un mistero di morte, ma un mistero di vita. Una vita accolta, e offerta. Regalata. Senza limiti, in totale e piena gratuità, con uno stile che rimanda solo a Dio e alla sua essenza di totale e assoluta gratuità. Nicodemo ha fatto fatica in quel momento ad accogliere queste rivelazioni del Maestro, troppo fonda era la notte del suo cuore, troppo incomprensibili le sue domande di senso, e apparentemente troppo vaghe le risposte di Gesù. Ma la sua presenza al sepolcro, assieme alle donne e a Giuseppe di Arimatea ci suggeriscono che anche lui abbia fatto il suo percorso di fede che lo ha condotto a pensare che vivere è credere nell’amore e che non credere all’amore del Padre che ci ama come Figli significa autoescludersi dalla vita, perché la vita è essere «figli e fratelli». E quando ci succede che non riconosciamo gli altri come fratelli, quando pretendiamo che siano come li vogliamo noi, quando non siamo accoglienti, quando giudichiamo, calunniamo, odiamo, quando facciamo finta che non esistano, compiamo noi stessi un giudizio di autoesclusione dalla logica stessa che dà senso alla nostra vita. 

Di null’altro mai ci glorieremo se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione; per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati.

 

+ Giovanni Checchinato

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