Professione religiosa di sr. Vanisha, Figlia della Chiesa

Siamo condotti, con questa celebrazione a contemplare il centro della nostra fede, Gesù, il Cristo, il Re dell’universo. E’ una occasione preziosa per superare la tentazione di perderci fra le mille sfaccettature della nostra vita di fede che -pur importanti- non esauriscono la verità centrale del nostro incontro con il Signore e il suo Vangelo; una occasione per compiere un giusto discernimento fra il Signore e le cose che lo riguardano. Un teologo salvadoregno scriveva qualche anno fa: “da giovani abbiamo imparato che, quando i santi volevano rinnovare la chiesa e guarirla dai suoi mali, tornavano sempre a Gesù e alla sua sequela. San Francesco d’Assisi non voleva essere altro che un repetitor Christi e Sant’Ignazio di Loyola chiedeva insistentemente “di conoscere intimamente il Signore che per me si è fatto uomo, perché più lo ami e lo segua” (Esercizi Spirituali, n. 104). “Tornarono” a Gesù e ciascuno di loro ha scatenato una “rivoluzione” che è arrivata fino ai giorni nostri.” E allora proviamo a fissare l’immagine di Gesù che ci viene presentata in questa pagina di Vangelo scorgendone alcune caratteristiche che possono essere usate anche da noi.

La prima caratteristica che possiamo scorgere nel testo di Matteo è una domanda che sta sulle labbra dei protagonisti del testo sacro ma sta anche nel cuore di ognuno di noi: dove sei, Signore? Nelle numerose esperienze della nostra vita chissà quante volte abbiamo detto a noi stessi: dove sei Signore? Dove possiamo cercarti? E’ significativo il titolo di un libro apparso recentemente nelle librerie, scritto da vescovo di Asti: “Dove sei finito, Signore?” E il Signore continua a risponderci con un testo che si colloca non tanto alla “fine” della nostra storia, ma sul “fine” della nostra esistenza di seguaci del Maestro di Nazareth, sul significato della nostra sequela. Proprio su questo “significato” riceveremo un discernimento da parte del Signore, che desidera il nostro bene, il nostro vero bene. La nostra appartenenza come battezzati a lui si verifica non tanto su quanto avremo imparato dal catechismo, su quanto avremo celebrato con le nostre liturgie, ma su quanto saremo stati capaci di “abitare la storia” del tempo che ci è dato da vivere, da come avremo accolto gli occhi nuovi che ci permettono di riconoscerlo qui presente, accanto a noi. Ed è così che scopriamo -attraverso queste semplici parole accolte del Vangelo di oggi- che il Signore ci abita accanto in chi è affamato, assetato in croce, nudo, legato, ultimo di tutti. Perché il Signore si è fatto così per noi e nella storia si identifica sempre con l’ultimo, con quelli che portano il male del mondo. E allora noi troveremo sempre il Cristo, il Nostro Signore, il nostro Re, nell’ultimo degli uomini e ciò che facciamo all’ultimo è fatto a Lui ma non per modo di dire: veramente l’ultimo è il Signore, non per un travestimento strano o perché noi siamo pii e devoti, no: è il Signore, lo dice espressamente l’identificazione e la misura di validità delle nostre azioni è la nostra attenzione verso l’ultimo. Non solo, lui si fa presente proprio lì dove non lo andremmo a cercare rispetto alla mentalità del nostro tempo, e cioè nella periferia, in ciò che è piccolo e disprezzato. Scriveva D. Bonhoeffer: “Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro (…) Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”.

Un ulteriore elemento del discernimento a cui saremo sottoposti (ma non dovrebbe essere l’atteggiamento con cui anche noi facciamo discernimento quotidianamente?) riguarda il nostro atteggiamento concreto nei confronti dei poveri. Certamente alla fine saremo giudicati sull’amore, ma questo “alla fin fine” non riguarda anche alla modalità con cui abbiamo amato? Oggi molti di coloro che pensano di essere re della propria vita, in realtà ne sono schiavi: schiavi della loro immagine, della loro presunta realizzazione umana, della loro ambizione, di quella modalità manipolativa delle relazioni con gli altri che ne fanno dei perdenti. Onorare Cristo Re significa imparare ad essere sovrani prima di tutto di se stessi, perché chi si sente beneficiario e responsabile della propria vita non ha paura degli altri; chi sa davvero su chi ha scommesso per vivere bene, non ha timore del confronto, non si ritrae quando ha trovato il “centro di gravità permanente” come cantava tanti anni fa Franco Battiato. Solo chi si fa riempire della regalità del Signore che è servizio totale e disinteressato è capace di preoccuparsi davvero degli altri. Il nostro tempo è più sollecitato, rispetto alle precedenti generazioni, alla tentazione di accumulare sicurezze, di mettere da parte qualcosa perché “non si sa mai”, di tenersi tutte aperte le possibilità della vita per poterla gustare in maniera illimitata. Don Lorenzo Milani raccomandava ai suoi ragazzi di Barbiana: “E’ più contento uno che la sua libertà l’ha regalata di chi è costretto a tenersela”. Potremo assumere questo principio pensando ai beni materiali e spirituali che possediamo e di cui siamo tanto gelosi: a che ci servono se non per essere donati? E così potremmo parafrasare la massima di don Milani dicendo che “è più contento uno che la sua vita l’ha regalata di chi è costretto a tenersela”. E allora se il primo sguardo su Gesù Cristo Re dell’universo ci porta a guardare i poveri come sacramento della sua presenza, il secondo sguardo ci conduce ad apprendere da lui a donare gratuitamente ogni nostro bene, primo fra tutti la vita. 

Il terzo sguardo è sulle parole del Vangelo che esprimono benedizione e maledizione. E’ interessante che Matteo usi due formulazioni differenti per la benedizione e la maledizione. Quando riferisce della benedizione dice: “Venite, benedetti del Padre mio” mentre la maledizione non è accompagnata dal nome di Dio: Dio non maledice, mai, nessuno. Certamente la scelta che possiamo compiere di non riconoscerlo accanto a noi ci porta tristezza, ci fa sperimentare la maledizione e la vacuità della vita senza relazioni significative, la disperazione di chi ha pensato sempre solo a se stesso, incapace di cogliersi come fratello e sorella degli altri. Solo nella relazione con il nostro prossimo possiamo trovare la gioia, la solitudine non ha mai portato mai gioia a nessuno. E per poter gustare la presenza degli altri abbiamo bisogno di sentirci interlocutori del Signore che ci chiama e ci ama e ci riempie del suo amore infinito a tal punto di sentire il bisogno di donare questo amore agli altri, in maniera anche radicale; come scriveva in una famosa preghiera Ch. De Foucauld: Ed è per me un’esigenza d’amore il darmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza infinita, poiché Tu sei il Padre mio.”

Quando tanti anni fa ho conosciuto le Figlie della Chiesa, suor Odilla mi regalò un libro che tratteggiava la vita e l’esperienza di Madre Maria Oliva: lessi con attenzione il tutto, ma mi rimasero impresse delle espressioni che la Madre aveva sentito riferite alle prime Figlie della Chiesa: erano descritte come “le suore che pregano, le suore che sorridono, le suore povere”. Chi è capace di pregare sul serio, di sorridere e di vivere nella povertà, ha incontrato il Signore; nella preghiera, come interlocutore da ascoltare e da cui sentirci amati, nel sorriso che è segno di una umanità matura e responsabile che vive bene la relazione con se stesso e gli altri, nella povertà che è l’unico mezzo che ci è dato per poter aprire varchi nel nostro cuore per accogliere una presenza più grande e più significativa, quella del Signore. Cara Venisha, auguri per il tuo cammino di Figlia della Chiesa, aiutata dalla testimonianza di questa pagina di Vangelo che la Provvidenza ha stabilito per te, stasera: capace di vivere con gli occhi aperti ai poveri, con il sorriso nel cuore e sulle labbra nella relazione con le tue sorelle e con il mondo, appagata da un Amore che ti chiama a seguirlo ogni giorno della tua vita.  

 

+ Giovanni Checchinato

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