Professione perpetua suor Valentina

Le parole della Scrittura hanno raggiunto le nostre orecchie e la nostra intelligenza: chiediamo al Signore il dono dello Spirito perché ci aiuti a farle entrare nelle pieghe più profonde del cuore così da dare forma a ogni nostro sentimento e azione, come ci suggerisce Paolo, quando ci augura di avere in noi “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Interessante che l’Apostolo non auguri di avere lo stesso pensiero di Gesù Cristo, o lo stesso stile di vita, ma gli stessi sentimenti, quelli che procedono dal cuore, dal luogo dei nostri desideri più profondi e veri, dal luogo dove si genera l’amore. Possiamo leggere con questa lente di ingrandimento anche la celebrazione che stiamo compiendo per la professione religiosa di Valentina, gesto di totale ed assoluta gratuità posto in un tempo, il nostro, in cui c’è poco spazio per questa dimensione che caratterizza in maniera speciale Dio e che rimanda necessariamente a lui. Scriveva sant’Agostino contemplando il mistero della gratuità presente nell’Incarnazione: “Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo, e vedi se trovi mai altro che grazia”. (Disc. 185; Pl 38, 997-999) 

Ci facciamo aiutare da qualche sottolineatura alle situazioni e alle parole che il Vangelo ci presenta. E’ un testo che conosciamo bene e che forse sappiamo anche a memoria perché -almeno in una sua parte- corrisponde al Cantico evangelico della preghiera dei Vespri, ma che forse proprio per questo, rischiamo di ascoltare o rileggere in maniera superficiale. Possiamo metterci davanti alla scena del Vangelo prima di tutto contemplando le due protagoniste, Maria ed Elisabetta: la prima giovane e la seconda vecchia. Probabilmente Elisabetta non era così vecchia come noi possiamo pensare, ma l’evangelista Luca calca la mano su questo dato perché gli serve mettere a confronto non solo le due storie che le donne portano con sé, ma il valore simbolico di quello che rappresentano. Elisabetta è vecchia, con una precomprensione rispetto al futuro che ormai si è fatto breve, con una speranza che cede progressivamente, attaccata come è da ogni parte dalle vicende faticose della vita e dalle sue delusioni, e ci racconta un po’ la nostra umanità piena di attese rispetto alla vita e alla realizzazione nostra e dei nostri progetti…; Elisabetta ha in grembo il Battista, l’ultimo dei profeti, colui che porta con sé tutta l’attesa millenaria di Israele. Maria è una ragazza giovane, piena di oggettive possibilità per il futuro, possibilità legate alla parola di un essere misterioso che si è presentato a lei a nome di Dio; Maria ha in grembo l’atteso. L’annuncio del Battista avviene in un ambiente formalmente sacro, il luogo più recondito e sacro del Tempio, all’interno di una storia religiosa e istituzionale bellissima ma ormai inefficace a offrire senso all’umanità, l’annuncio di Gesù avviene in un luogo laico, una casa qualsiasi di un villaggio sconosciuto (di Nazareth non si parla neanche una volta nel Primo Testamento!). Ma proprio in quelle due donne che si abbracciano c’è il simbolo forte di un evento che si realizza: finalmente si abbracciano l’attesa e l’Atteso, il desiderio e il Desiderato. In qualche maniera in loro c’è la storia dell’umanità di ogni tempo e di ogni dove rappresentata da Elisabetta che attende felicità, vita, futuro e Maria che porta in sé il compimento di questo desiderio. Ed è dal loro incontro che sgorga un canto. Canta chi ama e si sente amato. Canta un cuore che è gioioso; un cuore triste non può cantare. Proprio dall’incontro tra Elisabetta e Maria sgorga questo canto. E questo canto non è un canto qualunque, ma è un canto che abbraccia il senso di tutta la storia. Elisabetta dice questo a Maria: Beata te perché hai creduto che la Parola di Dio si può compiere, e non lì dove noi ce lo aspettiamo, ma dove il Signore sceglie di farsi presente. E in Maria si compie tutto perché crede alla Parola del Signore che ha scelto la storia degli uomini per abitare con loro per sempre. E il canto di Maria è il canto della chiesa, è il canto di Israele, è il canto dell’umanità, ma è anche il canto di chiunque crede che diventa capace di vedere la storia con gli occhi di Dio. Ecco che l’incontro fra Maria ed Elisabetta si ripete tutte le volte che qualcuno si fida della logica di Dio e di fronte al quotidiano sa guardare oltre, sa “cercare e trovare Dio in tutte le cose”, sa offrire con la sua fede la certezza di un compimento, la realizzazione del desiderio più profondo di ogni uomo, quello di trovare “senso” ad ogni variabile della vita. 

La seconda sottolineatura riguarda l’inizio del canto dei Maria: “Magnificat”. Sappiamo tutti molto bene che magnificare è una parola italiana che significa “dare gloria a qualcuno”, ma questa parola ha un significato più oggettivo legato alle parole di cui è composta: fare grande. Quando Maria canta il Signore con il Magnificat in realtà chiama le cose con il loro nome riferendo di Dio che è grande e di sé che è una sua creatura. L’incontro con Dio nella nostra storia, e nondimeno nella storia del nostro tempo, ci permette di conoscerlo veramente per quello che è.   Purtroppo ci capita di fare Dio piccolo, meschino, invidioso, giudice, geloso, tremendo, rendendolo a nostra immagine e somiglianza; ma rimpicciolire Dio vuol dire rimpicciolire sé stessi, vuol dire proiettare su Dio tutto il peggio che c’è in noi, tutte le nostre colpe, tutti i nostri desideri di punizione, tutti i nostri deliri di onnipotenza. Maria dice di Dio che è grande: e il far grande Lui dilata tutte le tue possibilità. E contemplare la sua grandezza dà gioia infinita a te. Sei contento di Lui, perché? Perché tu, considerando la sua grandezza gioisci della sua grandezza, della sua magnanimità, della sua bontà, del suo amore e sei in Lui. Più fai grande Dio, più gioisci tu, più sei vicino a Lui e più capisci te stesso, diventi magnanimo anche tu, ti si dilata il cuore, che esplode nella gioia e nella meraviglia. Addirittura non solo la mia anima glorifica il Signore, ma il mio spirito esulta, cioè danza di gioia.

L’augurio che sento di fare a ognuno di noi e in maniera tutta particolare a Valentina è stato espresso da queste due brevi sottolineature: fare esperienza della grandezza di Dio per poter essere capace di riconoscerlo ovunque egli si faccia presente nella storia nostra ed altrui. E diventare strumenti perché possano diventare sempre più concreti gli incontri fra i desideri reali e profondi dell’umanità e la risposta di Dio che si serve dei nostri volti, dei nostri occhi e dei nostri sorrisi, della nostra cura per essere d’aiuto “a ogni bene qualunque esso sia”. 

 

+ Giovanni Checchinato

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