Ordinazione Ivan Garro

Carissimi sorelle e fratelli nella fede diciamo grazie al Signore con la nostra presenza per questa celebrazione eucaristica che condividiamo nel giorno della ordinazione presbiterale di Ivan. Le parole proclamate nelle letture sono rivolte a tutti perché “quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola, annunzia il Vangelo” (Ordinamento generale del Messale Romano, 29). Ma queste parole sono rivolte a ciascuno in maniera particolare, un po’ come l’abbondante seme del seminatore di evangelica memoria che cade sulla strada, sul terreno sassoso, sulle spine e sulla terra buona (cfr Mt 13,1-23). Consentitemi di trasformare questa omelia in una specie di regalo per Ivan, in questo giorno così importante per la sua vita, fatto di tre consegne provenienti da altrettante sottolineature di questa o di quella parola. 

La prima consegna è “l’eccedenza del Vangelo”. Rimango sempre colpito dalle parole dell’evangelista Giovanni quando ci parla delle esperienze degli apostoli con Gesù dopo la risurrezione, un po’ per la loro carica evocativa e simbolica e un po’ perché si riferiscono ad eventi che mettono in relazione gli apostoli con una presenza particolare di Gesù, quella post-pasquale, che è non del tutto dissimile da quella che sperimentiamo anche noi oggi. Il primo messaggio che ci colpisce è proprio quello di una modalità “altra” di farsi presente di Gesù: “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”. Ci parla di una presenza del Verbo di Dio “differente”, “altra”, “eccedente” rispetto a quella che rispetta le logiche fisiche del tempo e dello spazio, una presenza che caratterizza Dio, “il totalmente altro”, ma che caratterizza anche la vita di Gesù in ogni sua parola ed azione, e che, in maniera altrettanto oggettiva, caratterizza anche il Vangelo che eccede sempre le nostre comprensioni e riduzioni. Non è infrequente l’utilizzo strumentale che facciamo del Vangelo, adattandolo ai nostri bisogni meschini, selezionandolo a secondo delle mode o delle situazioni, manipolandolo come fosse un testo qualsiasi. Ma “la parola di Dio non è incatenata” e riesce sempre a fuggire di fronte ai nostri maldestri tentativi e continua a presentarsi a noi con il carico del suo paradosso e della sua utopia. La presenza di Gesù mentre sono chiuse le porte mi conduce proprio a pensare che il Vangelo che siamo chiamati a incarnare e a testimoniare è oltre le nostre capacità di realizzazione, ma anche oltre le nostre capacità di comprensione, e che con una sua energia propria si manifesta ogni giorno “oltre” i nostri schemi e i nostri progetti, rimanendo libero e liberante. E così veniamo a scoprire che “la vita stessa così come è vissuta dal cristiano è giocata sull’eccesso, sull’eccedenza, sul superamento, sul fidarsi al di là di ciò che si può verificare, sul donarsi senza riserve, sulla gratuità. Tutta la nostra vita ci appare allora, pur nella sua banalità, come segnata da questo «fuoco che brucia», da questo oltrepassare ciò che è puramente l’esigenza della retta ragione, del calcolo ben fatto.” (C. M. Martini, Le tenebre e la luce) Che la vita di ogni cristiano e ancor più la vita di ogni persona consacrata profumi di questa “temerarietà” evangelica, capace di far intravvedere sovrumani silenzi dietro l’apparente banalità della siepe del quotidiano, che ci alzino lo sguardo dalle logiche disumanizzanti con cui pretendiamo di leggere il nostro tempo e la nostra storia. Essere occhi e vita in cui altri possano trovare il guizzo dell’assoluto, perché -come cantava Franco Battiato- “è in certi sguardi che s’intravede l’infinito”. 

La seconda consegna è il “dono della pace”. Nella narrazione giovannea questo saluto/dono è ripetuto due volte in poche righe: è la pace del risorto che raggiunge gli apostoli e attraverso di loro ciascuno di noi. È la pace vittoriosa dell’Agnello immolato seduto alla destra del Padre, la sintesi feconda del suo ministero in mezzo a noi. Un modo nuovo di offrire salvezza: non la l’altezzosa condiscendenza del potente nei confronti dei suoi sottoposti, ma la scelta di mettersi accanto, di condividere tutto, fino alla morte e alla morte di croce. Essere donne e uomini di pace significa superare la tentazione del “balconear” direbbe papa Francesco, di guardare dall’alto con sufficienza la storia del mondo dispensando consigli a buon mercato, ma significa mettersi in gioco, accettando di essere artigiani di pace nella complessità delle cose e delle situazioni. Diventando assertori radicali di un Dio che è principe della pace, e superando la tentazione di identificare la pace con strategie interessate all’economia o a logiche politiche e soprattutto superando la tentazione di dichiarare pregiudizialmente Dio dalla nostra parte: Scriveva D. Bonhoeffer: “Nella Chiesa abbiamo un solo altare e questo è l’altare dell’altissimo, dell’unico, del Signore, al quale soltanto è dovuto onore e adorazione, il creatore, davanti al quale ogni creatura deve genuflettersi, davanti al quale l’uomo più forte non è altro che polvere. Non abbiamo altri altari per onorare gli uomini. […] Chi pretende per sé un altare, o vuol costruirne uno per un altro uomo, schernisce Dio e Dio non si lascia schernire. Essere nella Chiesa significa avere il coraggio di essere soli con Dio in quanto Signore, significa non essere servi degli uomini, ma di Dio. E per questo ci vuole coraggio…  Come viene la pace? Per la pace si deve rischiare, è una grande temerarietà, e non si può mai stare sul sicuro. Pace è il contrario di sicurezza. Cercare sicurezza significa avere diffidenze, e queste generano a loro volta guerra. Cercare sicurezza significa volersi proteggere. Pace significa affidarsi totalmente al comando di Dio, non volere sicurezza, ma nella fede e nell’obbedienza porre in mano a Dio onnipotente la storia dei popoli e non volerne disporre a proprio arbitrio”. Non possiamo essere artigiani di pace senza gustare la pace con il Signore nella nostra relazione con lui, attraverso una relazione quotidiana, amicale, fraterna. Come scriveva san Serafino di Sarov: Trova la pace dentro di te e migliaia attorno a te troveranno la salvezza. 

La terza consegna è la riconciliazione. “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,23) C’è un grande bisogno di riconciliarsi, con Dio, con gli altri, con se stessi, con l’ambiente, con le realtà umane più complesse e strutturate. Il tema del perdono caratterizza il Vangelo più di ogni altro scritto sacro o religioso e lo troviamo sulle labbra di Gesù come epilogo della sua vita, una sorta di ultimo dono riassuntivo della sua esistenza. Negli studi ho spesso ritrovato questa frase pronunciata la sera della Pasqua come la consegna di una potestà, quella della chiesa di stabilire criteri per assolvere o non assolvere i peccati. Faccio però fatica a pensare a Gesù che consegna potere, lui che ha sbaragliato con le sue parole e la sua vita tutti i poteri della terra. Lui che ha desacralizzato ogni realtà umana che pretendeva di legare Dio a una parola, una attività, una devozione, per spingere lo sguardo dell’uomo verso la Trascendenza e l’incommensurabilità del Padre suo e nostro. La leggo piuttosto come un invito a perdonare come stile di vita, ad essere donne e uomini di riconciliazione “a prescindere”, sapendo che questa consegna è stata data a noi, come seguaci del Maestro di Galilea; e che ci dice che questa è una consegna specifica della nostra appartenenza alla sequela di Gesù. Se voi non sarete così generosi nel portare la riconciliazione, il mondo morirà di fame di perdono, ci dice Gesù. Quanto siamo ridicoli quando anche nei nostri ambienti misuriamo con regole sofisticatissime il merito per donare il perdono e quanto siamo antievangelici quando sottoponiamo la gratuità di Dio alle nostre regole meschine! Diventare donne e uomini di riconciliazione significa partire dalla convinzione che “nulla è impossibile a Dio”. Significa diventare consapevoli, ancora una volta, che il paradosso della nostra fede è più efficace delle logiche umane, che il Vangelo ci abilita a cercare speranza dove c’è disperazione, luce dove c’è buio, vita dove sembra regnare solo la morte. 

A te caro Ivan consegno questi doni/sogni per la tua vita da presbitero e li consegno anche ad ognuna e ognuno di voi, chiamati dal Vangelo di Gesù ad essere portatori della eccedenza del Vangelo della pace e della riconciliazione. 

+ Giovanni Checchinato

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