Pellegrinaggio diocesano giubilare

Omelia Messa Giubilare a San Pietro

È una vera consolazione poter celebrare il Giubileo come Diocesi questo pomeriggio, alla tomba dell’Apostolo Pietro, dopo aver compiuto il cammino da pellegrini e aver attraversato la porta santa, vivendo sulla nostra pelle l’esperienza esaltante del devoto ebreo che cantava: “Apritemi le porte della giustizia: voglio entrarvi e rendere grazie al Signore. È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti.” (Sal 117,19-20) Sono le porte della giustizia, non la giustizia di noi umani, che ci assomiglia e manifesta tutte le nostre mancanze e i nostri limiti, ma quella di Dio, che “ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ef 2,4-5). E il passare attraverso la porta santa ci ha invitato ad assumere la logica di Dio, che ci precede sempre nell’amore, che è piena di gratuità e speranza. “Per essa entrano i giusti” non significa che noi possiamo passare perché siamo giusti, magari ci crediamo più giusti degli altri, ma perché “giustificati” da un amore che infinitamente perdona ed accoglie. Un amore misericordioso che non è costato poco al Signore, una grazia a caro prezzo “perché è costata cara a Dio, perché gli è costata la vita di suo Figlio «siete stati riscattati a caro prezzo» (1Cor 6,20) e perché non può essere a buon mercato per noi ciò che è costato caro a Dio. È grazia soprattutto perché Dio non ha ritenuto troppo elevato il prezzo di suo Figlio per la nostra vita, ma lo ha dato per noi.” (Bonhoeffer, Sequela) Come non fare rendimento di grazie con questa eucaristia, per il dono della misericordia, per il dono della chiamata alla vita, alla fede, alla chiesa? 

E proprio grazie a questa eucaristia che sigilla il tempo santo della domenica, che vogliamo chiedere al Signore di accoglierci ancora assetati della sua Parola che salva, per scorgere in essa la luce che illumina il nostro cammino di viandanti.  E il Signore illumina questo nostro pomeriggio con tre inviti, alla memoria, alla pace e alla relazione. 

Gesù è alla vigilia della sua partenza e sente profondamente il disorientamento degli apostoli, ma a loro promette un Paraclito, l’avvocato chiamato a difendere nel processo, colui che si mette in mezzo e prende le parti di un altro nella lotta contro l’Avversario. E lo fa, prima di tutto, compiendo una operazione: “lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. (Gv 14,26) Abbiamo bisogno di non perdere la memoria per permettere alle nostre orecchie e al nostro cuore di connettersi con il Vangelo, quell’unica parola che è capace di farci avere uno sguardo libero e liberante nei confronti di Dio e della storia che lui ci offre da vivere nel qui e ora del nostro tempo. Non è un caso che la tradizione ebraica mantenga gelosamente l’impegno di pregare più volte al giorno con le parole “Shemà Israel”, “Ascolta Israele”. (Deut 6, 4) Proprio lo Spirito di Dio che abita il nostro cuore ci spinge a connettere la nostra storia con la nostra fede, perché -come ci ricordava il patriarca Atenagora: “Senza lo Spirito Santo Dio è lontano, Cristo rimane nel passato, il Vangelo è lettera morta, la Chiesa è una semplice organizzazione, l’autorità è una dominazione, la missione una propaganda, il culto una evocazione, e l’agire dell’essere umano una morale da schiavi.” E così la memoria del Vangelo diventa il paradigma con cui leggere il nostro presente; il ricordo del nostro incontro personale e comunitario con Cristo diventa la sorgente a cui abbeverare la nostra anima riarsa per le delusioni e i problemi della vita, facendoci scoprire la bellezza di una parola che -pur espressa con termini umani-, porta in se stessa significati inesauribili. 

Il secondo invito che Gesù ci fa è quello della pace: confusi come siamo dalle tante voci che gridano sguaiate in questi tempi di conflitti vicini alle nostre terre, siamo anche noi tentati di pensare prima di tutto alla pace “come la da il mondo”. Ma Gesù ci dice che la sua pace è diversa, è la pace “sua” (Vi lascio la pace, vi do la mia pace). La pace, nel linguaggio biblico, è la promessa di una pienezza di vita che il mondo non può assicurare. Il mondo promette la pace fatta di scambi commerciali, di logiche di dare/avere, di sospetto pregiudiziale dell’altro, del principio del “giusto mezzo” … La pace promessa dal Signore è fatta di gratuità, di uno sbilanciamento di amore, di accoglienza pregiudiziale del prossimo perché “prossimo”, di un amore dato fino allo sperpero, come il profumo della donna che viene usato per onorare Gesù prima della passione. E questo dono è stato fatto a noi cristiani perché noi possiamo testimoniarlo al mondo con i nostri pensieri, con le nostre scelte, anche e soprattutto con le nostre parole che profumino di Vangelo e non di logiche mondane! Solo chi ha fatto davvero l’esperienza dell’amore può essere certo della vicinanza della persona amata anche quando i suoi occhi non la vedono. Chi ha fatto l’esperienza di sentirsi amato non si porta nel cuore il turbamento, ma la pienezza perché nell’amore vero non c’è posto per la paura. E chi non sperimenta la pace e non cerca la pace, probabilmente ha bisogno di ritornare al Vangelo, a Gesù che è pace, accogliendo questo dono incommensurabile di cui il mondo ha sempre tanto bisogno. Scriveva sant’Agostino: “Che cosa ci lascia quando se ne va, se non se stesso, dal momento che non ci abbandona? Lui stesso è la nostra pace, lui che ha superato in sé ogni divisione. Egli è la nostra pace se crediamo in lui, e sarà la nostra pace quando lo vedremo così come egli è.” Forse abbiamo messo da parte questa consegna da parte del Vangelo e ci siamo illusi di poter cambiare il mondo con le nostre ragioni. Abbiamo invece bisogno di chiedere e accogliere il dono della pace per essere, come Gesù “segno di contraddizione” in forza del Vangelo e della sua grazia. 

Il terzo invito è ritrovare la relazione: in tutto il discorso – e non solo quello riportato dal brano del vangelo di oggi- Gesù non è mai da solo, non si presenta mai come unico, ma è sempre in relazione con il Padre. Non è mai al centro perché al centro c’è la vita degli altri, la vita delle persone amate, l’amore che lo unisce al Padre. L’amore di Gesù non è mai ripiegamento, ma sempre donazione a qualcuno. Siamo anche noi tante volte ammalati dal virus del narcisismo e ne siamo coinvolti a tal punto che ci accorgiamo degli altri solo quando abbiamo bisogno di incolpare qualcuno delle nostre frustrazioni e problemi. Purtroppo non siamo così convinti che il male che vediamo per primo negli altri è quello che alberga più frequentemente dentro di noi, come ci dicevano i grandi esperti di spiritualità dei primi secoli della Tradizione cristiana. I pensieri hanno una loro forza, una loro consistenza, una loro densità, e ci capita di diventare ciò che pensiamo; quando poi questi pensieri appartengono alle convinzioni legate al nostro modo di leggere la storia piuttosto che alla forza liberante del vangelo, entriamo in un vortice da cui facciamo sempre più fatica ad emanciparci e perdiamo la libertà, quella di essere noi stessi, ma anche quella di aprirci ad una parola che salva e libera, come quella di Gesù: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. (Gv 8,31-32) 

Signore, ti chiediamo di donarci il tuo Spirito che illumini e ravvivi la nostra memoria del tuo amore per noi, inondi il cuore della tua pace che non può sperimentare chi non ti conosce e ci renda sempre più sorelle e fratelli in comunione grazie alla esperienza di te. E siano questi i doni che ti chiediamo per questo Giubileo. 

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