Quattro parole per la Quaresima

Mercoledì delle ceneri

Raccolgo quattro parole dalla Liturgia di oggi e in maniera particolare dal brano di Gioele che abbiamo ascoltato come prima lettura. 

La prima parola che prendo è “ritorno”, parola densa di significato teologico per il popolo degli ebrei, che sta sullo sfondo di tante feste giudaiche annuali da celebrare con solennità, ma anche dietro alla esperienza del “ritorno” nella terra di Israele avvenuta nel secolo scorso. Il ritorno si fa verso una meta scelta, dopo aver ben chiaro dove ci troviamo. Nella nostra relazione con il Signore dove vorremmo arrivare? E da dove partiamo? Non è molto difficile mettere come obiettivo della quaresima alcune osservanze e sentirsi soddisfatti nella misura in cui le abbiamo onorate con il nostro impegno, ma se ascoltiamo con attenzione la parola/invito del profeta, troviamo che siamo sollecitati a tornare a lui, a Dio e non semplicemente all’osservanza di alcuni precetti piccoli o grandi che siano. “Quando i santi volevano rinnovare la chiesa e guarirla dai suoi mali, tornavano sempre a Gesù e alla sua sequela. San Francesco d’Assisi non voleva essere altro che un repetitor Christi e Sant’Ignazio di Loyola chiedeva insistentemente “di conoscere intimamente il Signore che per me si è fatto uomo, perché più lo ami e lo segua” (Esercizi Spirituali, n. 104). “Tornarono” a Gesù e ciascuno di loro ha scatenato una “rivoluzione” che è arrivata fino ai giorni nostri.” (Jon Sobrino) E sappiamo bene che, siccome anche noi facciamo parte della Chiesa, desiderare una chiesa più bella, più santa e capace di testimonianza necessita della nostra conversione, del nostro ritorno a Gesù Signore. 

La seconda parola è “cuore”: l’invito di Gioele è chiaro, il cuore dobbiamo mettercelo proprio tutto e se davvero ci mettiamo il cuore in questo processo di ritorno al Signore, allora possono avere senso anche i digiuni, i pianti ed i lamenti. Che cosa bella, il cuore! Che cosa complicata, il cuore! È bella perché ci permette di dare una luce nuova alle cose, alle persone, agli avvenimenti… ricordate la bella descrizione che ne fa nel piccolo principe di Saint Exupery la volpe? Non parla di cuore, ma di un legame che proviene dal cuore e che chiama addomesticamento: “La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color d’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…” Quando nel cuore c’è questa esperienza forte, pervasiva, totalizzante, tutto il mondo che ci sta accanto ne beneficia, anche quello inutile o noioso, non quando abbiamo il cuore diviso, lacerato dal tentativo di mettere insieme cose che insieme non possono stare: un ideale alto e appassionante e i nostri interessi meschini, l’amicizia e il tornaconto, l’attesa della trasparenza da parte degli altri e la scelta dell’ambiguità da parte nostra… E se questo è vero per le relazioni umane, quanto è più vero per nostra relazione con il Signore! 

La terza parola è “conversione”, parola che spesso associamo ai nostri tentativi, più o meno riusciti, di cambiare vita, di non fare più certi peccati nei quali siamo soliti cadere, di iniziare uno stile nuovo di relazioni con Dio e con il prossimo. Questa parola ha questo senso, ma viene riferita anche –e questo brano ne è la testimonianza evidente- a Dio di cui si dice: è pronto a ravvedersi riguardo al male … chi sa che non cambi e si ravveda? È Dio che mostra la sua conversione nei nostri confronti senza la quale ogni nostro tentativo di conversione sarebbe goffo e inefficace. Qualcuno di noi sarebbe motivato a convertirsi di fronte ad un Dio vendicatore e feroce assertore delle proprie leggi? Chi avrebbe voglia di seguire un Dio che se la fa solo con quelli che non sbagliano, con quelli che hanno avuto tutte le fortune nella vita e hanno patito di meno degli altri, con quelli che sono sempre perfetti in pensieri parole ed opere? Eppure dentro il nostro cuore e la nostra mente possono esserci pensieri e sentimenti di questo genere, dimensioni che provengono dalla sfera meno cosciente di noi stessi e che ci mettono paura con l’idea che Dio punisca noi, o quella parte di con cui abbiamo peccato (chi ha peccato lui o i suoi genitori perché nascesse cieco?), o che la protezione di Dio sia direttamente proporzionale alla quantità delle opere buone che compio o delle preghiere che faccio, o che mi custodisca dipendentemente dalle rinunce e penitenze a cui sottopongo me stesso e il mio corpo? Ecco perché abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni a convertirci e questo qualcuno è proprio Dio; non solo, Dio che si converte verso di noi ci fa capire che la conversione vera non parte dalla esperienza della legge o della vendetta, ma dall’esperienza dell’amore. 

La quarta ed ultima parola è riunione/popolo e rimanda alla valenza relazionale/comunitaria della conversione. L’incontro con il Signore produce quel cambiamento da cui siamo beneficiati non solo noi, ma anche tutti coloro che entrano in relazione con noi in una qualche maniera. Nella lettera agli Efesini (4,25), ad esempio, la motivazione della proibizione della menzogna non viene trovata nella legge santa e nobile come quella dell’ottavo comandamento, ma nella esperienza dell’incontro con il Signore che mi fa riconoscere gli altri come fratelli e non come presenze ostili da cui tutelarsi: “Perciò, bando alla   menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri.” Se ho incontrato il Signore, la mia vita lo dirà; e se ho incontrato solo le cose del Signore, la mia vita lo dirà. Un segno dell’avvenuto incontro col Signore è la capacità di essere leali nelle comunicazioni, di essere capaci di coniugare verità e carità. Dice Papa Francesco: “Meglio fare a pugni che il terrorismo delle chiacchiere… Le chiacchiere fanno male” e, spesso, ”feriscono” le persone anche in ambienti come quelli PARROCCHIALI, o COMUNITARI, o nelle FAMIGLIE”. Allora, …”meglio mordersi la lingua: quello ci farà bene: la lingua si gonfia e non si può parlare, così non si possono fare chiacchiere”. “Su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello. E noi, ogni volta che lo facciamo, imitiamo quel gesto di Caino”. Anche nella nostra esperienza quotidiana ci sono problemi su questo versante: non potrebbe essere questa quaresima una occasione per imparare a fare un passo in avanti nelle nostre comunicazioni interpersonali, visto che il Signore non si stanca di parlare bene di noi, nonostante i nostri limiti? 

Concludo con la preghiera per la Quaresima di Efrem il Siro (+373) che compendia in sé in maniera felice tutti gli elementi negativi e positivi del pentimento e costituisce, per così dire, un “promemoria” per il nostro sforzo personale: Signore delle nostre vite allontana da noi lo spirito dell’ozio, della tristezza, del dominio e le parole vane. Accorda ai tuoi servi lo spirito di castità,

di umiltà, di perseveranza e la carità che non viene mai meno. Sì, nostro Signore e nostro Re, concedici di vedere i nostri peccati e di non giudicare i fratelli e tu sarai benedetto ora e nei secoli dei secoli. Amen.

+ Giovanni Checchinato

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