Lo sguardo di Maria è uno sguardo materno che sa rendersi conto di quanto succede

Madonna del Pilerio

Ancora una volta siamo invitati a confrontarci con la pagina del Vangelo che ci narra l’episodio delle nozze di Cana, e tanti sono i protagonisti dell’episodio, ma uno particolare ed importante è certamente la madre di Gesù, invitata -sembra di capire così dal testo- ancora prima del Figlio. Da quando Giovanni ha scritto questo testo numerosi cristiani hanno voluto leggere non solo il ruolo di intercessione esercitato da Maria in quell’occasione, ma una caratteristica che la Madre del Salvatore continua ad esercitare anche nei nostri confronti, nell’oggi della nostra storia. E portando i nostri occhi a Maria nel suo agire a Cana vorremmo scrutare più approfonditamente la sua presenza a Cana, i suoi gesti, le sue parole, i suoi silenzi che rappresentano un invito rinnovato a fare tutto quanto il Figlio suo ci dice per vivere in fedeltà la nostra vocazione di credenti. 

Mi soffermo sullo sguardo di Maria: è uno sguardo materno che sa rendersi conto di quanto succede ma sa anche andare ben oltre quello che tutti possono vedere fermandosi alla superficie. A Cana tutti sanno vedere che “viene a mancare il vino” e anche Maria se ne rende conto, ma lei sa andare oltre e si pone in maniera creativa nella situazione. Per potersi rendere conto di cosa c’è e di cosa manca nelle situazioni bisogna starci, bisogna viverci, mettendosi fianco a fianco dei fratelli e sorelle che condividono questo pezzo di storia con noi. Maria ci insegna prima di tutto a vivere nella storia, a non essere solo capaci di sentenziare dall’esterno sulle situazioni che viviamo a livello ecclesiale, sociale, relazionale, ma ad entrarci dentro con la nostra intelligenza e la nostra fede, per potervi scorgere un frammento di spazio dove sta germogliando un seme di vangelo vivo, rappresentato da una parola sapiente, da un comportamento di bene, da un desiderio di pace. Le rappresentazioni oggi dominanti tendono a descrivere la nostra terra cosentina, e tutta la Calabria, come una realtà lontana e altra, incomprensibile, sostanzialmente persa, addirittura estrema. Questo sguardo “da lontano” serve solo a prendere le distanze dal nostro contesto, e impedisce di rendersi conto che la nostra realtà non rappresenta un corpo estraneo, ma è un territorio/laboratorio in cui più chiaramente che altrove si può intuire in che direzione va tutto il Paese. Davanti a queste rappresentazioni c’è la tentazione forte dello scoraggiamento, di un progressivo ritrarci dalle nostre responsabilità di cristiani e di cittadini, accontentandoci di assumere quell’atteggiamento che papa Francesco definiva “balconear” e cioè “avere un atteggiamento distaccato rispetto alla realtà circostante, stare alla finestra senza partecipare a ciò che accade”. Se Maria avesse assunto lo stesso atteggiamento a Cana non ci sarebbe stata festa; ed è proprio lei ad insegnarci di prendere sul serio la nostra vocazione di artigiani della storia presente e futura, partecipando con responsabilità alle sorti della nostra terra e della nostra chiesa. Le povertà del territorio diocesano sono quelle che segnano tutto il contesto regionale, la questione demografica nelle aree interne ma ormai sempre più evidente anche nelle aree urbane, la fragilità del tessuto economico e dalla drammatica carenza di lavoro (che vuol dire impossibilità per tanti di accedere alle risorse materiali minime per poter vivere una vita dignitosa, per cui la fuga appare come l’unica possibilità); analogamente il divario civile rispetto ad altre regioni italiane, rappresentato dalla debolezza della scuola, dei servizi sanitari e socio-assistenziali, cioè di quei servizi territoriali che, se adeguatamente sostenuti, potrebbero rappresentare un importante incentivo a restare e, al tempo stesso, porre le basi di uno sviluppo autenticamente umano dei nostri territori. La debolezza dei servizi alla persona fa emergere responsabilità a tutti i livelli, ma è anche conseguenza di una scarsa consapevolezza dei problemi del territorio e di una scarsa attitudine partecipativa. Maria ci invita a farci carico anche come credenti e come chiesa di questa storia e ci ricorda quanto i Padri conciliari ci suggerivano alla fine del Vaticano 2°: “Il Concilio esorta i cristiani … di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno… La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo.” E così come Maria si è coinvolta attivamente in quella situazione, così ci chiede di coinvolgerci valorizzando proprio ciò che sembra essere letto solo con uno sguardo negativo e provare a pensare che proprio su questo nostro territorio si potrebbero tentare esperienze di intervento nelle situazioni più periferiche da mettere in campo anche in altri contesti.

Maria a Cana si è fatta presente e partecipe in maniera responsabile non solo perché ha saputo leggere una situazione critica e l’ha saputa indirizzare al bene, ma anche perché con le sue parole e i suoi gesti ha aiutato i presenti a quella festa a non perdere la speranza. Ha saputo orientare in maniera sapiente il proprio sguardo. Si può attendere il futuro come previsione o, in alternativa, come possibilità. Davanti alle situazioni problematiche è facile fare i profeti di sventura; se leggiamo invece, come Maria il futuro come possibilità scopriamo che in questa prospettiva prende forma la speranza, aprendo la strada a quello che potrebbe essere perché la speranza non è solo emozione o sentimento ma una capacità, come il desiderio. E la speranza non nasce dai numeri grandi, dagli eventi che cercano audience, ma dalla vita, le relazioni, le aspirazioni. E allora come non leggere con speranza i dati che ci dicono che soprattutto nelle aree interne, nei paesini più lontani e isolati della nostra diocesi in questa terra così problematica «si continua ad abitare, a fare progetti, a manifestare bisogni, a sognare. C’è ancora vita. Ci sono famiglie con figli piccoli che hanno deciso di restare. Tanti giovani che hanno scelto di continuare a risiedervi e tanti altri che resterebbero se si creassero le condizioni per fermarsi. E soprattutto ci sono anziani, il più delle volte soli, che restano perché da sempre radicati in quelle terre e che mantengono vive relazioni sociali di prossimità e minute economie». Quanto sono consolato quando vedo che -nonostante fatiche di ogni genere- nelle parrocchie più lontane della diocesi si vivono relazioni belle, che profumano di umanità vera, si costruisce insieme il futuro, si valorizza il presente come possibilità. Come credenti e come cittadini siamo chiamati a superare la tentazione della sfiducia, dell’avverbio “ormai” che sa di disfatta, di capitolazione e aprirci alla speranza e testimoniare che anche nelle aree della rarefazione si possono sperimentare soluzioni originali ai bisogni ecclesiali, sanitari, sociali, scolastici, di mobilità; che nei contesti demograficamente desolati si riescono a praticare soluzioni innovative sul terreno dell’accoglienza dei migranti, mediante progetti che vengono considerati come modelli di presa in carico comunitaria anche al di fuori dei confini della nostra regione e del nostro paese. Accogliere e annunciare l’evangelo per noi oggi significa “sposare” questa terra, sceglierla ogni giorno, e amarla facendosi carico delle sue luci e delle sue ombre, nella consapevolezza che, come Chiesa, abbiamo a che fare sia con le une che con le altre.  Maria ci insegna a compiere questa scelta mettendoci in gioco, così come lei si è messa in gioco a Cana, così come si è messa in gioco a Cosenza, quando per poter liberare la città dalla peste ha accettato di portare la macchia della peste sulla guancia, così come la santa icona della Madonna del Pilerio ci ricorda. 

Invochiamo Maria, dunque, perché ci aiuti ad essere cristiani innamorati del tempo e della terra che il Signore ci dà da vivere, ci sostenga nel cammino della vita, fianco a fianco con tutti, tutti, tutti, per cercare il Regno di Dio e trovarlo -inaspettatamente- nelle pieghe recondite delle nostre vite, delle bellezze del nostro territorio e nondimeno nelle sue ferite recenti o cronicizzate, in questo tempo complesso e bellissimo in cui ci è chiesto ancora una volta di “rendere ragione della speranza che ci abita” (1 Pt 3,15). 

 

+ Giovanni Checchinato

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