Incontro religiosi

Raccolgo e sottolineo alcune parole dal testo evangelico che ci è stato proposto oggi; è un brano di Marco che ci racconta l’invio in missione degli apostoli e ci fa ricordare il momento della chiamata, quando l’evangelista ci dice che “chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e (anche) per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni.” La missione ha bisogno di motivarsi sempre andando alla sua origine, alla chiamata che i discepoli hanno ricevuto e nella quale riconosciamo anche le nostre chiamate e che ci chiede prima di ogni cosa di “stare con Lui”. Dobbiamo ammettere che tante volte il nostro essere chiamati si colloca prevalentemente sul fare qualcosa, e che talvolta si polarizza solamente nel fare. Stare col Signore significa gustare la nostra relazione prima di tutto con lui, una relazione capace di trasfigurare la nostra vita, una vita che diventa di per sé annuncio e missione. Parole dure che scriveva qualche anno fa Susanna Tamaro possono rappresentare una sfida: “Essere una persona integra, totale, una persona che non ha doppiezze, fraintendimenti, che conosce solo il ‘sì si, no, no’ di evangelica memoria. Sono così la maggior parte delle persone di chiesa che ci vengono incontro, che parlano dai pulpiti delle parrocchie, in televisione, sui giornali? Hanno sguardi luminosi? Le loro bocche parlano davvero della pienezza del cuore? Sono forze di santità? (…) La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le manifesta. La coerenza non sembra essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi sull’Appennino hanno il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da loro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali, è molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle domande che ha dentro. Questa sete di verità e bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testimonianze né da una liturgia che ha abbandonato il sacro diventando sempre più simile a sorta di intrattenimento televisivo. (…) Forse è il momento di capire che non è la quantità, ma è la qualità a fare la differenza. E la qualità non dipende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma dalla purezza dell’anima che si arrende alla Grazia. Un’anima arresa è un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traffica, organizza, o si assopisce sui suoi privilegi, è un’anima che allontana.”

La seconda parola che raccolgo è l’invio a due a due: l’esperienza di intimità col maestro si trasforma in bisogno interiore di condividere con gli altri la narrazione di una porzione di vita capace di dare pienezza. Ma questo non può avvenire da soli, perché il rischio della illusione è sempre in agguato; e solo la presenza di un fratello o di una sorella capace di confrontare le mie competenze e le mie fragilità può essermi di vero aiuto, può smascherare nelle ardite profezie che escono dalle nostre bocche la ricerca di visibilità e una o più tracce di narcisismo, riconoscere in uno zelo che non conosce requie l’incapacità di farsi un serio esame di coscienza, svelare nascosto dietro ad un atteggiamento di cura eccessivo la tentazione della manipolazione. Fraternità e sororità sono un dono che precede ogni attività missionaria perché ci aiutano a sperimentare prima di tutto noi quanto annunciamo agli altri, vivendo la relazione, la comunione e la carità. Michel de Certeau ci ricorda che “esistere significa ricevere da altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà. Chi sfuggisse da questo faccia a faccia, non per questo eviterebbe la paura, inseparabile da ogni scontro, ma rinuncerebbe ad essere, affermando al vento un diritto che sarebbe incapace di far riconoscere. Pretesa o resa che sia, la sua fuga solitaria lo escluderebbe dal gruppo, lo esilierebbe dal mondo reale e non farebbe altro che condurlo nel ‘deserto’ mitico dove l’inseguire miraggi è già un suicidio. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro.”

L’ultima parola che raccolgo è il servizio che ci viene affidato descritto dall’ultima riga del vangelo di oggi: “proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Mi fermo sull’ultimo verbo: “li guarivano”. Certamente il mandato di Gesù e l’opera della grazia hanno permesso che quei poveri pescatori di Galilea fossero artefici di miracoli, come il Maestro. Ma il verbo utilizzato da Marco ha una pluralità di significati che va attenzionata. E questa molteplicità non esclude affatto l’effetto finale di guarigione, ma ne comprende molti altri. Infatti Therapeuein può significare: 1 servire, esser soggetto; 2 [+ accusativo] servire, attendere o stare al servizio di; 3 venerare, onorare, rispettare, stimare; 4 accattivarsi la benevolenza con i buoni uffici, blandire, accarezzare, adulare; 5 visitare, corteggiare; 6 attendere, rivolgere i pensieri a, occuparsi, darsi cura di; 7 educare, formare, l’animo; 8 curare come medico, medicare; 9 guarire, risanare. In ogni caso l’attenzione intrinseca di questo verbo è la cura dell’altro. Allora possiamo immaginare che l’oggetto della nostra vocazione sia “essere amati per amare”, o “prenderci cura degli altri perché il Signore si è preso cura di noi” e da qui provare ad immaginare tutto un sistema che metta al centro il “prendersi cura” gli uni degli altri, a partire dallo sguardo con cui rivolgo la mia attenzione all’altro per finire a dare la mia vita per lui. Diventare capaci di relazioni in cui ci sia posto per approvare e lodare nella verità e con semplicità l’operato altrui senza timore di sembrare adulatori; e corrispondentemente crescere nella capacità di accogliere la lode e il riconoscimento di un confratello o di una consorella senza timore di cadere nella tentazione della superbia. Crescere nella capacità di valutare la storia personale, comunitaria, ecclesiale, universale a partire dal tanto bene che c’è ma essere anche capaci di correzione fraterna compiuta nella sobrietà e nella discrezione. Diventare appassionati del poco fatto insieme piuttosto che del molto fatto ognuno per conto proprio. Scriveva san Bernardo:  «Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portato alla rovina. Ma coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio, con un cuor solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore, rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma anche attira la benevolenza di Dio (…). Infatti lo spirito maligno sa che il Figlio non permette che si perda nessuno di coloro che gli ha dato il Padre: non c’è infatti chi possa strapparli dalla sua mano. E per questo principalmente il demonio conosce che, coloro che si amano sono nella mano di Dio e non sono toccati dal tormento della morte. In questo, disse, “conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente” (tutti lo conosceranno, anche i demoni). Il demonio teme l’amore fra gli uomini… Questa è la città forte e inespugnabile».

Chiediamo al Signore di benedire la nostra vita, le nostre esperienze comunitarie, e di renderci sempre di più seme gettato nella terra che produce solo nella misura in cui si consegna a lui, secondo le parole del Vangelo. Che benedica il nostro stare insieme oggi perché siamo testimoni vivi di verità e di libertà, di giustizia e di pace, e perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo. Amen

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