Messa in coena Domini

Giovedì Santo

“Lì amò fino alla fine”

Fra le tante parole che compongono il testo della “Lavanda dei piedi”, scelgo solo queste cinque che rappresentano una cifra significativa del gesto che stiamo per compiere ma anche di tutto il mistero Pasquale. Questa narrazione del Vangelo di Giovanni prende il posto del racconto della istituzione dell’Eucaristia proposto dagli altri evangelisti; l’autore del quarto vangelo ha scelto, probabilmente, di sostituire la narrazione dell’Ultima Cena, ben conosciuta perché già organizzata liturgicamente dalle comunità cristiane, con la narrazione della Lavanda dei piedi che dell’eucaristia svela il senso e le implicazioni spirituali e morali. Può capitare anche a noi di trasformare il gesto liturgico in una semplice azione simbolica incapace di incrociare la nostra vita, il nostro cuore: quando questo succede abbiamo bisogno di tornare al Vangelo, di rileggere con attenzione quanto ci dice e di chiederci cosa significa, facendo tesoro di tutte le altre testimonianze contenute nella Scrittura. E questa sera, vogliamo lasciarci guidare proprio dal senso che la Lavanda dei piedi possiede, per comprendere “quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). 

Una tentazione a cui possiamo essere assoggettati è quella della lettura parziale delle parole della consacrazione, concentrandoci solamente sulla parte che riguarda noi come destinatari di un dono grande, quello della vita del Signore; in effetti quando Gesù offre il suo corpo e il suo sangue, misticamente simboleggiati dal pane e del vino, aggiunge: “Fate questo in memoria di me”. Che non significa solamente l’invito alla ripetizione del gesto, ma significa mettersi nello stesso stile di Gesù, imparando a fare ciò che lui ha fatto. Lo abbiamo sentito anche nella pagina evangelica appena proclamata: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Eucaristia non solo come dono ma anche come esempio, da cui poter attingere per diventare a nostra volta donne e uomini eucaristici. Possiamo partire proprio dai quattro verbi che gli evangelisti coniugano per descrivere Gesù nella sua ultima cena: prendere, dire grazie, spezzare, donare. 

• Gesù prende il pane: il pane è la vita e Gesù, come ogni altro uomo ha preso la vita, ma non per viverla a proprio piacimento, a suo uso e consumo, ma per condividerla. Gesù non prende del pane per mangiarselo lui, ma per moltiplicarlo e darlo. La vita nella fede ci è data non perché possa soddisfare il nostro bisogno di religione, di mistero… L’esperienza cristiana è esperienza di bene condiviso fino in fondo, senza calcolo, per amore dell’altro; “A che serve la vita se non ad essere donata?” (P. Claudel)

• Gesù rende grazie (lett. “fa eucaristia”): è capace di fare eucaristia solo chi è capace di dire grazie. Gesù sperimenta dentro di sé e conosce bene che tutto è dono prezioso del Padre: per questo sente di dover dire grazie. Anche di fronte ai momenti critici della sua vita Gesù rende grazie: quando si trova nel deserto davanti alla sterminata moltitudine affamata, Gesù non chiede al Padre di poter fare il miracolo, ma ringrazia in anticipo (Mc 8,6). Lo stesso fa davanti al sepolcro di Lazzaro, morto da ben quattro giorni: Gesù ringrazia prima ancora di risuscitarlo (Gv 11,41). L’esperienza cristiana è esperienza eucaristica: siamo invitati dal mistero che celebriamo a ringraziare il Signore per il dono delle sorelle e dei fratelli che camminano al nostro fianco senza i quali ognuno di noi sarebbe più povero. Gli altri non sono minaccia, ma risorsa, e soprattutto dono. 

• Gesù spezza il pane: indica la sua fedeltà al disegno del Padre di lasciarsi “spezzare” dalla croce: testimonia così la volontà ostinata di chi vive la legge dell’amore in un contesto di odio e di rifiuto. Nei confronti degli altri possiamo essere capaci di un amore vero solo se ci lasciamo crocifiggere dalla loro presenza, se accettiamo il mistero che è racchiuso nella loro esistenza, se ci sforziamo di intravedere nella loro vita un riverbero della vita stessa di Dio. Altrimenti l’altro diventa semplicemente un bene da concupire e da utilizzare: non voglio più il bene dell’altro, me lo voglio “mangiare”, perché lo reputo mio possesso, bene strumentale, di cui io solo sono il “Signore”. L’eucaristia ci insegna a chiamare le esperienze che viviamo con il loro nome, a chiamare bene il bene e male il male, ma ci insegna anche a guardare oltre il male che può crocifiggerci, sapendo che “chi mangia questo pane ha la vita eterna” (cfr Gv 6,54). Una vita eterna che non arriverà dopo la nostra morte, ma che ha preso inizio col battesimo ed è capace di illuminare di senso ogni esperienza umana. “Non sono i fatti a contare nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa.” (E. Hillesum): quando l’eucaristia diventa il dinamismo vivo della mia esistenza, illuminando con la sua logica ogni mia esperienza, tutto cambia. E non solo per me. 

• Gesù dona il pane: offre con il pane se stesso, tutto il suo essere, senza calcoli né limitazioni: l’offerta di Gesù è fatta di corpo e di sangue, cioè di totalità di essere. “Gesù Cristo, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso” (Fil 2, 6-7). Ci insegna un amore senza limiti, senza confini, senza logiche di tornaconto personale e in qualche maniera uno stile di vita: “amare per primi, amare tutti, amare sempre”.

L’eucaristia si rivela, così, una scuola di vita. E noi vogliamo chiedere al Signore di apprendere sempre di più il suo stile che ci invita ad accogliere, a dire grazie, a condividere, a donare per trasformare la celebrazione in vita nuova, quella della chiesa che vive il Vangelo nella storia del nostro tempo.

 

+ Giovanni Checchinato

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