La Scrittura e in maniera particolare i Vangeli ci conducono, con alcune parole chiare e altre meno, a contemplare il mistero del Natale, spingendoci poi a fare nostro il mistero, a farlo diventare modello di vita, prospettiva sulla quale camminare. Sia Luca che Giovanni ci conducono al “centro” del mistero, usando forme letterarie diverse, espressioni poetiche proprie –ciascuna alla sensibilità dell’autore- e ci invitano a provare a balbettare così la nostra omelia. Luca ci riferisce che il mistero della incarnazione di Dio, il mistero di un Dio che si fa uomo si colloca nella storia semplice, povera di una coppia di sposi che deve camminare fino a Betlemme, nonostante le precarie condizioni di una donna incinta come Maria, ci parla di pastori, di greggi, di un bambino avvolto in fasce che nasce in una mangiatoia. Dov’è la gloria di Dio? Dov’è il fragore del tuono che ha accompagnato la Rivelazione sul Sinai, il fluttuare delle onde che si aprono per permettere al popolo di Israele di camminare a piedi asciutti in mezzo al mar Rosso, dov’è il fuoco divorante che passa attraverso l’altare del sacrificio preparato dal profeta Elia sul monte Carmelo? Non c’è nulla di tutto questo, non c’è fragore assordante, anzi sembra che la musica più congeniale all’incarnazione sia proprio il silenzio, un silenzio profondo e discreto, e una semplicità assoluta fatta di piccole e povere cose. Lo stesso evangelista che ha cominciato il suo Vangelo ambientando nel Tempio gli antefatti della nascita del Battista cede ora il passo ad uno scenario privo di splendore e di gloria, come può essere quello di un bambino avvolto in fasce che viene deposto in una mangiatoia. Alla stessa maniera, anche se con parole e stile diverso l’evangelista Giovanni ci descrive la nascita del Redentore attraverso quattro parole greche ed altrettante nella traduzione latina, VERBUM CARO FACTUM EST, e il Verbo si è fatto carne. La parola di Dio che ha creato l’universo, quella Parola che appena pronunciata dall’eterno Padre diventa realtà, come ci ricorda il libro della Genesi (E Dio disse: sia la luce! E la luce fu.) quella parola considerata essa stessa luce, “lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (come ci fa pregare il Salmo 119,105), quella parola si fa carne. Nel linguaggio della Bibbia carne è l’elemento più fragile dell’uomo, la sua dimensione caduca ed effimera: “gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (salmo 90), e questa Parola così potente che ha creato il cielo e la terra si fa carne, carne precaria e debole, esperienza di provvisorietà e di fatica. Questa Parola si fa carne in un bambino appena nato, appoggiato su una mangiatoia, fuori dall’ambiente in cui normalmente si custodiscono i bambini, figlio di una coppia “precaria” e irregolare, visitato da gente che porta con sé, a causa della professione di pastore, una qualifica di impurità permanente, una coppia che è in viaggio e che dovrà continuare a peregrinare per diverso tempo, a causa di una legge iniqua voluta dal potente di turno che non accoglie i bambini e li perseguita. Il Verbo si è fatto carne significa tutto questo e molto di più, significa una presa di posizione da parte di Dio: se vogliamo trovarlo davvero, dobbiamo cercarlo dove lui ha scelto di vivere, in mezzo a noi e non sopra di noi, dentro di noi e non fuori di noi. Dio sceglie di vivere nella storia dell’umanità, in mezzo a questa storia e non sopra questa storia. Che tristezza un cristianesimo che non sappia coniugare il Vangelo con la storia, che non sappia accogliere la provocazione del Natale come il dono di speranza più bello che ci possa essere. La tentazione di servirci della religione per acquietare le nostre angosce, per farci sentire buoni e migliori degli altri, pronti sempre a metterci sul piedistallo del giudizio, della vendetta o peggio della indifferenza, l’illusione di poter vivere solo secondo le nostre prospettive e la mancata accoglienza di quelle altrui, l’incapacità di farci da parte riconoscendo gli altri superiori a noi stessi, e altro ancora, non sono segnali di una incarnazione che è avvenuta solo nella nostra mente ma non nella nostra vita? Un Vangelo che non si fa storia non è la perpetuazione di un mondo idolatrico che ha solo cambiato nomi e contesti? Un Vangelo che non diventa passione per la custodia e la salvaguardia di questa storia, della nostra, del nostro prossimo, del mondo intero, non è solamente un testo pericoloso da cui tenersi alla larga? E se Dio ha scelto ciò che è povero, ultimo, disprezzato, giudicato, per portarci la salvezza, non lo ha fatto forse per indicarci quale strada percorrere per ricevere la sua salvezza? Dio fatto bambino e adagiato in una mangiatoria, il Verbo fatto carne per abitare fra noi davvero ci insegnano a vivere bene in questo mondo, indicandoci la strada da percorrere se vogliamo essere felici e se non vogliamo trasformare il Vangelo in una favola vecchia che scalda i cuori solo a Natale per illuderci.
Ma se Dio ha scelto di abitare la marginalità, la provvisorietà e la vulnerabilità, ha scelto di abitare questi ambiti non solo fuori di noi ma anche dentro di noi. Lui è la salvezza non solo per la storia dell’universo, ma anche per la nostra personale storia, quella più intima e conosciuta forse solo da ognuno di noi e da Dio. Esistono nella nostra storia realtà che non ci piacciono, realtà del presente o del passato, avvenimenti, esperienze negative o problematiche di cui siamo stati vittime o anche autori responsabili, storie che non ci piace ricordare e che abbiamo messo nel dimenticatoio, storie di cui addirittura ci vergogniamo un po’. Quelle storie ed esperienze hanno creato delle lesioni nella nostra memoria, dei vuoti, e talora anche delle buche e delle voragini e sembra che niente possa riempirle di un po’ di consolazione e di pace. L’incarnazione di Dio è la promessa perché questa esperienza di consolazione e di pace possa essere compiuta e realizzata: Colui che ha scelto di abitare nella marginalità e nella vulnerabilità del mondo, sceglie nondimeno di abitare nelle dimensioni che ci rendono più fragili e vulnerabili davanti ai nostri occhi e al Suo cospetto. Se accogliamo il mistero del Natale, tutto quello che di più fragile scopriamo in noi, diventa il luogo più propizio per incontrarlo, perché la nostra povertà umana, le nostre ferite, la nostra condizione di uomini e donne imperfetti e bisognosi gli uni degli altri diventano il luogo della sua Rivelazione. Quando ne facciamo l’esperienza, sentiamo tutta la gioia e la felicità di aver scoperto un Dio che ci ama semplicemente perché… ci vuole bene e non perché siamo adeguati ai suoi precetti, non perché siamo osservanti cultori delle liturgie, non perché possiamo fregiarci di titoli e di onorificenze, ma semplicemente perché siamo figli. E un figlio si ama così com’è e non come lo voglio io.
Che ognuno possa fare l’esperienza di un Natale di pace, di pace con la storia, di pace con se stesso e con gli altri; che ognuno si possa sentire importante perché amato gratuitamente, senza attese o pretese, che ognuno possa assaporare il bene della vita propria ed altrui, dono incommensurabile e pertanto libero e gioioso e che per questa esperienza ognuno possa dire grazie al Signore, che con infinita bontà e misericordia ci ama e ci salva con la sua vita, lui, il Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in noi.