Essere radicati nell’amore: riflessioni sulla permanenza di Gesù e la gioia del suo servo

A partire dall’ intuizione espressa attraverso l’allegoria della vite e i tralci, di cui il breve brano evangelico di oggi è continuazione, Gesù ci comunica la verità della vita divina che parte dal Padre dei cieli, arriva al suo cuore, unica cosa con quello del Padre suo, per poi raggiungerci, uno ad uno.  Un verbo che viene usato più volte in questi versetti è il verbo “rimanere”. È un invito, ma anche una promessa e numerose possono essere le strade da percorrere per comprendere questa parola del Maestro: il rimanere di Gesù in noi, il rimanere di noi in Gesù e gli effetti in noi di questo rimanere.

Gesù ci offre la sua “permanenza” nella nostra vita: non è assimilabile alla visita di un amico, alla telefonata di un collega, all’uscita con la comitiva preferita, cose esterne a noi anche se evidentemente ci fanno piacere, e che hanno una durata più o meno lunga. Gesù ci dice parole che profumano di senso e ci aiutano a capire meglio la verità di una misteriosa ma reale di presenza della sua vita nella nostra, e una intimità della sua esistenza nella nostra esistenza, così come è, in forza di una alleanza che è stata stabilita per noi nel battesimo. E in forza di questa grazia, nulla nella nostra esistenza rimane uguale: anima, intelligenza, volontà affettività, corporeità. La sua presenza in noi, il suo “dimorare in noi” ci dà un nuovo modo di essere, partecipi realmente della natura divina: possiamo pensare come lui, desiderare come lui, amare come lui, agire come lui. E in noi si realizza già ora, già qui, quanto dice l’Apocalisse con l’affermazione: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”: quelle cose che ad uno sguardo superficiale ed esterno sembrano scontate e appartenenti alla storia di questo mondo, possiamo guardarle già ora con gli occhi stessi di Gesù. Siamo cioè resi capaci di credere con il cuore indiviso di Cristo, senza temere nulla, capaci di sperare ciò che Gesù ha sperato per noi, la realizzazione del Suo Regno; pronti a leggere nella presenza dei fratelli la presenza di Gesù, abilitati ad amarli con il suo stesso amore, con la sua stessa tenerezza e misericordia.  Come scriveva H. U. von Balthasar: I nostri atti più intimi di credere, amare, sperare, i nostri umori e sensazioni, le nostre risoluzioni più personali e libere, tutto questo inconfondibile che noi siamo, è talmente compenetrato che egli è il soggetto ultimo, sul fondamento del soggetto che noi siamo.

La permanenza, (dimora) di Gesù nella nostra vita non è tuttavia una realtà magica o che possa avvenire anche senza di noi e la nostra libera volontà di accoglierla: siamo liberi…. Anche a noi, come al giovane ricco Gesù dice: “se vuoi…” Lui ci ama comunque, ma per poter gustare e vivere all’interno di questa intimità Gesù ci chiede di aprire la porta del nostro cuore: “Ecco io sto alla porta e busso”: tutto dipende dalla nostra risposta. Possiamo amarlo solo perché egli ci ha amati per primo, solo se ci sentiamo amati da lui e abbiamo deciso di fare di questa esperienza di intimità lo stile quotidiano della nostra vita. Del resto nella sinagoga di Cafarnao Gesù aveva affermato ancora questa verità: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui: non si può dimorare in lui se non mangiamo la sua carne e beviamo il suo sangue, se non entriamo, cioè, in quella intimità che ci ha promesso e ci offre. E se volessimo tentare quella scalata che ci permette di raggiungere le vette della conoscenza di Dio senza passare per una precedenza di Amore, quello ricevuto, saremmo condannati ad essere un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna, ma niente più. A realizzare magari audience ad alti livelli con la nostra vita e con le nostre scelte che fanno “rumore” ma ad essere inevitabilmente soli e stanchi di quanto abbiamo operato, magari spendendo tutte le nostre sostanze ed energie. Solo chi entra nella consapevolezza affettiva ed effettiva di sentirsi amato può sentirsi amabile e dunque amare con tutto se stesso Dio e i fratelli. Chi invece non parte da questa esperienza può solo affaticarsi e sentire la vita cristiana come una esperienza che di volta in volta viene coniugata o con l’osservanza rigida di precetti morali o con quell’atteggiamento interiore di superbia che tanto caratterizzava i più grandi detrattori di Gesù, i Farisei. Gesù ci dice che solo nella esperienza vera dell’intimità con lui possiamo portare frutto, un frutto duraturo e non quello effimero dei nostri successi personali. Se non si è “contemplativi” (nel senso spiegato sopra) è bene dedicarsi all’apostolato solo per breve tempo e a modo di esperimento; diversamente si reca danno a sé e agli altri.  Per un cristiano deve essere chiaro che l’azione vera scaturisce dalla intimità con Gesù: nasce da un cuore che conosce e ama il Signore. Se non lo si conosce, si sbaglia nel fare il bene; se non lo si ama, manca la forza di farlo. (Lallemant)

Gli effetti di questo “rimanere” di Gesù in noi e di noi in Gesù sono annunciati nell’ultima frase del brano ascoltato: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Gesù parla di una gioia piena, traboccante, una esperienza estatica capace di condurci a cogliere la vita e il mondo dalla stessa prospettiva di Dio. Al termine di questa celebrazione il vescovo Salvatore benedirà una piazza di Borgo Giuliano intitolata a mons. Francesco Antonio Nolè, arcivescovo metropolita di Cosenza – Bisignano prima di me. L’esperienza che Gesù promette a noi di poter vedere con gli occhi stessi di Dio già in questa vita come anticipo, Mons. Nolè la vive già in pienezza, raccogliendo il dono dell’amore infinito di Dio nella pienezza del Regno e i frutti delle opere buone che ha compiuto qui sulla terra a servizio di tutti. Vogliamo chiedere alla sua preghiera di aiutarci a compiere il nostro cammino di accoglienza del Maestro nella nostra vita, per poter essere ricolmi della gioia che il Signore solo sa dare ai suoi servi fedeli.

 

+ Giovanni Checchinato

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