1° anniversario morte mons. Nolè

Esaltazione della Santa Croce

Celebriamo oggi la festa della esaltazione della santa croce, una ricorrenza legata -secondo la tradizione- alla dedicazione delle basiliche costantiniane costruite sul Golgota. Vogliamo ricordare, in questo giorno il compianto monsignor Francesco Nolè ad un anno dal suo passaggio da questo mondo al Padre, in questo luogo, la Cattedrale di Cosenza, simbolo di unità della chiesa diocesana che come Pastore buono ha servito negli anni del suo servizio episcopale. 

La liturgia odierna spinge i nostri occhi verso la croce di Gesù e vogliamo provare a vedere che senso abbia la venerazione di questo strumento di tortura, che è stato il patibolo su cui Gesù ha offerto la sua vita. Davanti al mistero della sofferenza e della morte sentiamo mancarci il respiro e ancor più la parola; la nostra afasia si fa ancora più grave se ulteriori condizioni esterne alla sofferenza e alla morte ne aggravano l’essenza. Ci sembra che proprio il brano dell’incontro di Gesù con Nicodemo possa offrirci elementi capaci di gettare una luce rischiaratrice sul mistero della croce: anche Nicodemo fa esperienza di buio e di mancanza di orientamento e proprio per questo l’evangelista colloca simbolicamente il suo incontro col Rabbi di Nazareth di notte. È la notte legata al giorno, ma nell’immaginario dell’evangelista è anche una notte che sta nel cuore di Nicodemo che sta cercando la luce perché ha capito che non è sufficiente avere la vita per vivere, e desidera dare un senso alla sua vita. Gesù gli offre ascolto e Parola e vogliamo chiedere al Signore di offrire anche a noi ascolto e Parola per diventare capaci di cogliere il senso della croce e passare dalla considerazione della croce come patibolo maledetto a descriverla come “albero glorioso, cui unico è il fiore, le fronde, il frutto; dolce legno, che con dolci chiodi sostieni il dolce peso.”

Il mistero della morte e della sofferenza ci pongono costantemente una domanda cruciale: Che senso ha la vita? Quando si vive veramente? Perché non è sufficiente nascere per vivere e vivere una vita bella, buona e felice, ma abbiamo bisogno di sperimentare la forza che ci strappi dalle spire della morte e del nonsenso attraverso l’esperienza dell’essere amati. E nelle parole di Gesù in questo piccolo brano di Vangelo c’è tutto questo; Gesù ci parla dell’amore incredibile di Dio Padre non solo attraverso le parole che rivolge a Nicodemo, ma anche con la sua vita e la testimonianza della sua offerta totale. Siamo molto debitori di una mentalità che contrassegna un po’ tutti noi occidentali e che ci fa sentire artefici assoluti della nostra esistenza, capaci di una auto contemplazione e di un conseguente auto centramento del nostro essere che non ha eguali. Figli tutti di quella convinzione che poneva l’inizio dell’esistenza a partire dal pensiero: “Penso, dunque sono”. Una convinzione che apparentemente ci promuove, ma che in realtà ci fa sperimentare la solitudine e l’isolamento dagli altri che percepiamo come potenziale minaccia alla nostra esistenza e alla nostra realizzazione. Vivere in pienezza significa invece sperimentare una relazione di amore, significa trasformare l’asserto del filosofo in “sono pensato, dunque sono”. Sono pensato da chi mi ama, da chi farebbe pazzie per me, questo mi da la possibilità di vivere e di vivere bene. E il discorso che Gesù fa a Nicodemo attraverso il simbolo della croce, raggiunge anche noi, perché attraverso quelle parole Gesù ci svela l’amore di Dio per noi, un amore che non si arrende mai, ma si mostra in tutta la sua verità nella storia stessa di Gesù. E prima di ogni altra riflessione o prospettiva, il primo dato della nostra fede è proprio questo: capire e conoscere la “passione” che Dio ha per l’umanità. Una passione che dà concretezza alla nostra vita, dà senso al nostro bisogno di essere amati e di amare e che ci orienta a mettere in ordine le priorità della nostra esistenza. La passione che Dio ha per noi ci fa capire che d’amore si vive e di odio si muore; ci ricorda che chi non si sente amato non può amarsi, né amare. La nostra presunzione autoreferenziale, che cerca di promuovere il nostro io a tutti i costi, e che arriva a considerare gli altri possibili concorrenti per la nostra felicità, arriva anche a pensare che Dio sia geloso della nostra felicità. Proprio il mistero della croce vuole toglierci dalla mente e dal cuore questa idea di un Dio geloso della felicità umana e da ogni immagine cattiva che abbiamo di Dio, segno delle nostre paure su di lui e delle attese sbagliate della nostra coscienza. Proprio per togliere dalla nostra coscienza questa immagine cattiva di Dio Padre Gesù sceglie di finire in croce, e dopo aver conosciuto l’abisso della miseria e della cattiveria dell’uomo non si pone in atteggiamento di giudice schifato che guarda dall’alto al basso, ma assume questa storia di peccato, la fa sua e la porta su di sé, e per questa storia di peccato, a cui lui non ha contribuito, sceglie di dare la sua vita. Davanti alla croce di Gesù siamo invitati ancora una volta a chiederci che senso ha la vita, quando possiamo dire di vivere veramente e così, se vogliamo, possiamo buttare uno sguardo alla croce di Gesù, segno di quanto Dio ci ha amati. Quanto vale un uomo? Tanto quanto è amato. E ogni uomo vale la vita di Dio. E solo se abbiamo capito questo, sentiamo non solo il dovere e il diritto di essere amati ma sentiamo anche che l’amore e il rispetto per ogni essere umano, chiunque esso sia, sono l’imprescindibile condizione di esistenza dell’umanità. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Tutte le religioni insegnano a «tener buono» Dio, perché altrimenti si vendica e te la fa pagare, mentre Gesù è venuto a toglierci dalla mente e dal cuore questa immagine «demoniaca» di Dio e ci ha mostrato come ci ama Dio: donando se stesso per il bene nostro. E questa scelta di Dio ci insegna che credere è «vivere da figli», non da «padreterni» e che Dio non vuole giudicare nessuno, ma salvare tutti. Non fa finta che il male non ci sia, non chiama il male «bene», perché il male l’ha visto, l’ha sperimentato, l’ha preso su di sé. E il giudizio di Dio è questo: preferisco finire in croce io, piuttosto che condannare voi. Ancora una volta possiamo chiederci: Perché c’era bisogno che il Figlio di Dio fosse innalzato? Chi ne aveva bisogno, Dio? No, certamente, ma ne avevamo bisogno noi, per capire fino a che punto è disposto a perdere per noi. Davanti alla croce sperimentiamo che vivere è credere nell’amore e non credere all’amore del Padre che ci ama come Figli significa autoescludersi dalla vita. Perché la vita è essere «figli e fratelli». E siamo noi ad escluderci dalla vita quando non riconosciamo gli altri come fratelli, quando pretendiamo che siano come li vogliamo noi, quando non siamo accoglienti, quando giudichiamo, calunniamo, odiamo, quando facciamo finta che gli altri non esistano. 

Ecco perché celebriamo la croce, non per autocommiserarci, non per essere lamentosi osservatori di un mondo che non ci piace, ma per imparare l’alfabeto della vita, della gioia, della piena realizzazione. Mons. Nolè, dalla sua postazione di uomo, di religioso francescano, di vescovo aveva capito tutto questo e lo aveva trasformato in programma di vita. Ci indica con la sua vita la scelta di incarnare quotidianamente la preghiera che il poverello di Assisi aveva sentito sgorgare dal suo cuore nel momento della esperienza della croce e che metto a conclusione di questa omelia. 

O alto e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio. Dammi una fede retta, speranza certa, carità perfetta e umiltà profonda. Dammi, Signore, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen.

 

+ Giovanni Checchinato

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