Esempi di amore: la Croce come segno di compassione e servizio

L’immagine del Crocifisso che oggi veneriamo con questa celebrazione ci parla, continua a parlare al cuore dei cosentini così legati a questo santuario, ma continua a parlare al cuore di ogni donna e uomo che sentono in Gesù un fratello capace di condividere in tutto la nostra vita. Ci ricorda il testo neotestamentario di Ebrei (2,14): “poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo”. Siamo invitati dunque a contemplare la crocifissione non tanto nel suo aspetto di tortura e di barbarie, ma nella sua valenza di segno di un amore condiviso senza limiti attraverso il quale ciascuno di noi può dire con l’Apostolo: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”. (Gal 2,20). Ci facciamo aiutare per qualche breve riflessione dal testo della seconda lettura che ci offre non tanto la descrizione dell’evento della morte cruenta di Gesù, ma il senso che assume per ognuno di noi oggi.

C’è una frase immediatamente precedente al brano ascoltato e che è stata omessa: “abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”; nella logica della lettera ai Filippesi l’apostolo invita i suoi ascoltatori a compiere un’azione, provare ad avere gli stessi sentimenti che abitavano il cuore di Gesù. Non si tratta di imitare o provare ad avere pensieri, azioni o espressioni di culto di livello diverso, ma di sentimenti, e i sentimenti si trovano nel “cuore” delle persone. Qui si tratta di immaginare cosa abitava il cuore di Gesù nel corso della sua vita terrena, ma anche nel momento cruciale (il momento della croce-è proprio il caso di dirlo) della sua vita. Ce lo facciamo dire dagli evangelisti in qualche passaggio dei loro evangeli: “Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore” (Mt 9,36); e ancora di fronte alla sofferenza di due ciechi: “Gesù si fermò, li chiamò e disse: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Signore, che i nostri occhi si aprano!». Gesù ebbe compassione, toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono” (Mt 20,32-34). Gesù apre il suo cuore ai discepoli prima della sua passione rivelando i suoi pensieri, certamente, ma soprattutto il suo cuore pieno di amore nei confronti dei discepoli: è l’evangelista Giovanni che introduce il brano della lavanda dei piedi con queste parole: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”. (Gv 13,1) Cosa abita nel cuore di Gesù che è appeso a quel legno dove venivano appesi i briganti e gli schiavi ribelli? Quali sentimenti vi scorgo a partire dalle parole che escono dalle labbra di Gesù morente? Sono parole di pace e di perdono, senza nessuna rivendicazione, senza nessuna protesta nei confronti di alcuno. Dal cuore di Gesù escono parole che sono per me, perché anche per me ha scelto di soffrire la passione. Avere gli stessi sentimenti significa imparare da lui a bonificare il cuore da tutto ciò che sa di odio, di disprezzo, di giudizio nei confronti degli altri ed assumere la compassione, l’amore senza limiti imparando da Gesù vivere in maniera differente. E posso compiere questa operazione solo nella misura in cui so riconoscere che il mio cuore è abitato dall’odio, dal disprezzo, dal giudizio, dalla voglia di risarcimento per il male che non ho meritato e che ho dovuto subire. E se sono onesto fino in fondo devo riconoscere che non sono affatto santo, anzi, sento che il mio cuore alberga proprio quei sentimenti davanti ai quali sono così severo quando li trovo nel cuore degli altri. E così per poter sentire con la mia sensibilità quali sono i sentimenti che abitano il cuore del Cristo ho bisogno di mettermi davanti al Signore nella verità e nell’umiltà della mia condizione. Del resto “dove non c’è il peccatore, non c’è nemmeno il santo; potrà sembrare strano, ma i due percorsi si richiamano: se è superficiale il primo, lo sarà anche il secondo; o se la discesa agli inferi del proprio cuore si ferma troppo presto e molto prima dei propri inferi, anche il “prendi il largo” tirerà e attirerà molto poco”. (Cencini).

La seconda dimensione che il testo di Filippesi sottolinea è il percorso che ha compiuto Gesù per arrivare ad una generosità d’amore così radicale. Siamo tanto sollecitati da tutto ciò che appare e che ci mette in una posizione più qualificata rispetto agli altri: ci piace essere ritenuti più intelligenti, più capaci di sbrogliarci nelle situazioni della vita, capaci meglio di altri di arrivare ai nostri obiettivi, magari più furbi o più scaltri. C’è sempre un di più rispetto alle nostre competenze, soprattutto se confrontate con quelle degli altri. Il testo biblico ci dice che invece Gesù ha scelto un’altra strada mostrandoci il paradosso di un Dio che si spoglia, o meglio si svuota. Spogliarsi è poco, spogliarsi è l’esterno, svuotarsi si riferisce all’interno; cioè l’amore cede tutto lo spazio all’altro, accoglie l’altro, non occupa posto, è pura accoglienza. Perché la prima manifestazione dell’amore è lasciare spazi, come la prima manifestazione dell’egoismo è riempirli tutti con le nostre qualità reali o presunte, con i nostri titoli, con le nostre uniformi che ci fanno sentire forti. L’amore invece è discreto, lascia il posto all’altro, si svuota e prende, come dice il testo la forma dello schiavo. Quando scegliamo questo progetto di vita scopriamo che piano piano ci identifichiamo con ciò che amiamo e ancora di più con Colui che amiamo perché chi ama diventa come colui che è amato. La gloria di Dio consiste proprio nell’identificarsi con noi, non nel distinguersi.  Mentre l’egoismo vuol distinguersi dall’altro, affermarsi sull’altro, la gloria di Dio consiste prima di tutto nello svuotarsi per poi identificarsi con l’altro, e non solo, sceglie di farsi piccolo, il più piccolo di tutti. Guardate tutte le caratteristiche dell’amore: svuotarsi, assumere la forma dell’altro, farsi più piccolo ed obbediente. L’amore è dono, non dominio, è servizio, è andare incontro al desiderio dell’altro e non solo per un momento, ma fino alla fine.

Francesco di Assisi aveva capito bene tutto questo e lo aveva fatto programma per se e i fratelli con cui ha condiviso la vita. Mi piace concludere con un testo preso dalla Lettera ad un ministro, che non parla di croce né di sottomissione ma che rivela come si possa vivere incarnando in maniera radicale il Vangelo della Croce, dono profetico per ogni donna e uomo che desidera seguire più da vicino Gesù come ha fatto Francesco.

Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori.  E questo sia per te più che stare appartato in un eremo. E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli. E avvisa i guardiani, quando potrai, che tu sei deciso a fare così.

+ Giovanni Checchinato

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